Diritto Fallimentare


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19220 - pubb. 11/01/2018

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Cassazione civile, sez. I, 04 Giugno 1994, n. 5429. Est. Di Palma.


Fallimento - Organi preposti al fallimento - Giudice delegato - Provvedimenti - Reclami - Decisione - Partecipazione del medesimo giudice delegato al collegio del Tribunale Fallimentare - Obbligo di astensione ex art. 51, n. 4, cod. proc. civ. - Violazione - Esclusione



In materia fallimentare, la partecipazione del giudice delegato, anche quale relatore, al collegio del Tribunale Fallimentare che decide su reclami contro i provvedimenti del medesimo giudice delegato, ancorché di natura giurisdizionale (nella specie, decreto in tema di ripartizione dell'attivo) trova la sua ragione nel principio di concentrazione processuale di ogni controversia presso gli organi del fallimento e nella particolare posizione di detto giudice delegato, il quale è garante della rapidità delle fasi processuali, per la continuità della sua conoscenza su fatti, rapporti, situazioni, richieste e mutazioni soggettive ed oggettive della procedura, e, pertanto, non implica violazione dell'obbligo di astensione previsto dall'art. 51, n. 4, cod. proc. civ.. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I


Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Mario CORDA Presidente

" Pellegrino SENOFONTE Consigliere

" Rosario DE MUSIS "

" Antonio CATALANO "

" Salvatore DI PALMA Rel. "

ha pronunciato la seguente


SENTENZA


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nell'ambito della procedura fallimentare del Lanificio Elettra di Berti Roberto S.n.c., a seguito della predisposizione da parte del curatore, di progetto di ripartizione parziale dei crediti privilegiati ex art. 2751 bis cod. civ., il creditore Rag. Riccardo F. emise fattura n. 8 del 29 gennaio 1990, intestata al predetto Fallimento, per l'importo onnicomprensivo anche di I.V.A. di Lit. 15 milioni.

A causa dei rilievi mossi dal giudice delegato e dal curatore, il professionista emise altra fattura integrativa n. 33 del 20 settembre 1990 sempre intestata al fallimento, per Lit. 2.850.000, pari all'I.V.A. dovuta sull'importo imponibile di Lit. 15.000.000 (19%). All'istanza del predetto professionista, tendente ad ottenere il pagamento in prededuzione, ex art. 111 comma 1 n. 1 L.F., della somma di Lit. 2.850.000 dallo stesso versata per I.V.A. non riscossa, il giudice delegato, con decreto dell'11 luglio 1990, rispose negativamente, "atteso che il credito I.V.A. sarà pagato dal curatore quando effettuerà altro riparto comprendente i crediti privilegiati del grado 7 .

Avverso tale provvedimento Riccardo F. propose reclamo al Tribunale di Prato, che lo rigettò con decreto del 1 ottobre 1990. Il Tribunale ha osservato, innanzitutto, che il credito, insinuato al passivo, di rivalsa per I.V.A. sugli onorari per prestazioni professionali effettuate a favore del fallito è credito verso quest'ultimo e non verso la massa, e che non è certamente idonea a mutarne il titolo la circostanza dell'emissione della relativa fattura, anziché nel momento dell'esaurimento della prestazione professionale, in quello del pagamento, con conseguente intestazione della fattura stessa al fallimento.

Il Tribunale ha, poi affermato, che, siccome il riparto parziale in questione era stato predisposto unicamente per i creditori assistiti da privilegio di primo grado, non poteva essere contestualmente ordinato il pagamento del credito di rivalsa per I.V.A. sugli onorari per prestazioni professionali, postoché questo è assistito da privilegio diversamente graduato (art. 2778 n. 7 cod. civ.). Avverso tale decisione Riccardo F. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico, articolato motivo di censura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente si duole della circostanza che all'organo collegiale (tribunale), che ha deciso il reclamo avverso il decreto del giudice delegato, abbia partecipato anche lo stesso magistrato nominato, appunto, giudice delegato per la procedura, sostenendo che ragioni di opportunità avrebbero consigliato l'esclusione dal collegio del predetto magistrato. Tale profilo di censura - anche a voler prescindere dal tenore "perplesso" in cui è stato formulato (ragioni di "opportunità", anziché di legittimità), in considerazione del fatto che, trattandosi di vizio di costituzione del giudice (artt. 158, 161 cod. proc. civ., 114 disp. att. cod. proc. civ.), esso è rilevabile d'ufficio anche in questa sede salvo il limite della formazione del giudicato sulla questione - è comunque infondato: questa Corte, infatti, ha avuto modo di precisare che, in materia fallimentare, la partecipazione del giudice delegato, quale relatore (e, nella specie, non risulta nemmeno che la partecipazione al collegio del g.d. fosse avvenuta con tale qualifica), al collegio del tribunale fallimentare che decide su reclami avverso provvedimenti del medesimo giudice delegato, ancorché di natura giurisdizionale, come nella fattispecie, trova la sua ragione nel principio di concentrazione processuale di ogni controversia presso gli organi del fallimento e nella particolare posizione di detto giudice delegato, il quale è garante della rapidità delle fasi processuali, per la continuità della sua conoscenza su fatti, rapporti, situazioni, richieste e mutazioni soggettive ed oggettive della procedura e, pertanto, non implica violazione dell'obbligo di astensione previsto dall'art. 51 comma 1, n. 4 cod. proc. civ. (Corte Cost. n. 158 del 1970 e Cass. n. 1209 del 1992). 2.2. Sotto altro profilo, il ricorrente, pur ammettendo che la circostanza della emissione della fattura nei confronti del fallimento non trasforma il credito del professionista verso il cliente fallito in credito verso il fallimento medesimo, sostiene, però, che quella stessa circostanza implicherebbe l'addebitabilità della relativa imposta alla massa, quale spesa ex art. 111 comma 1 n. 1 L.F.: e ciò, in quanto, essendo il credito di rivalsa sorto al momento del pagamento del corrispettivo (emissione della fattura). vale a dire in un momento posteriore all'apertura del fallimento, esso sfuggirebbe alla regola del concorso; con la conseguenza che il fallimento avrebbe diritto a chiedere ed ottenere il rimborso dell'imposta versata a titolo di recupero di credito del fallimento; e con l'ulteriore conseguenza di un indubbio vantaggio per il fallimento medesimo, il quale vedrebbe, così, sorgere "una sopravvenienza attiva imponibile".

Altrimenti opinando, sostiene il ricorrente, si verificherebbe un indebito arricchimento per il fallimento medesimo a fronte di un pressoché sicuro depauperamento del professionista. Conclude il ricorrente che, ove si accogliesse il principio accolto dalla decisione impugnata, e quindi non conferendo alcun privilegio al credito di rivalsa I.V.A., si farebbe gravare l'imposta su un soggetto diverso (professionista) da quello istituzionalmente obbligato (consumatore finale, e cioè il fallimento) in quanto portatore della capacità contributiva; e ciò in violazione dell'art. 53 Cost. -. Anche tale profilo di censura deve essere respinto, e la connessa questione di legittimità costituzionale dichiarata manifestamente infondata.

2.2.1. La questione specificamente sottoposta all'esame della Corte attiene al trattamento giuridico del credito di rivalsa I.V.A. del professionista, relativo a compenso per prestazione d'opera intellettuale, nella fase di ripartizione dell'attivo fallimentare. La fattispecie - come emerge in modo incontestato sia dalla decisione impugnata, sia dal ricorso - riguarda l'ipotesi in cui siano state effettuate, a favore dell'imprenditore fallito, prestazioni professionali prima della dichiarazione di fallimento e, ovviamente, sia rimasto inadempiuto dal debitore l'obbligo di pagamento del compenso.

In siffatta ipotesi, come è evidente che il debito per il compenso grava sull'imprenditore fallito, a favore del quale è stata eseguita la prestazione d'opera intellettuale (combinato disposto degli artt. 2230, 2233, 2222, 2225 cod. civ.), così è normativamente stabilito che il debito a titolo di rivalsa I.V.A. grava sul medesimo soggetto (committente - imprenditore fallito): infatti, l'art. 18 comma 1 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 (nel testo modificato dall'art. 1 d.P.R. 23 dicembre 1974 n. 687) prescrive - con disposizione inderogabile (in ragione della volontà del legislatore acché il tributo incida anche su un determinato soggetto: cessionario o committente), e per quanto interessa nella fattispecie - che il soggetto che effettua a prestazione di servizi imponibile "deve" addebitare la relativa imposta a titolo di rivalsa, al committente.

In prima approssimazione, può osservarsi che, trattandosi di debiti (rispettivamente, a titolo di compenso per prestazione d'opera intellettuale ed a titolo di rivalsa I.V.A.) dell'imprenditore fallito, dovrebbe conseguire per un verso, che i corrispondenti crediti restano soggetti alle regole dell'insinuazione al passivo del fallimento e del concorso (art. 52 L.F.), e, per l'altro, che non è ipotizzabile, per definizione - avuto riguardo alla completa estraneità del fallimento rispetto ai rapporti giuridici di prestazione d'opera intellettuale, d'imposta e di rivalsa - la trasformazione, a causa della dichiarazione di fallimento, in particolare, del debito di rivalsa I.V.A. (gravante, come dianzi rilevato, sull'imprenditore fallito) in debito del fallimento (ben diverse sono le ipotesi disciplinate dall'art. 74 bis d.P.R. n. 633 del 1972, aggiunto dall'art. 1 d.P.R. n. 687 del 1974 e sostituito dall'art. 1 d.P.R. n. 24 del 1979, in cui, tra l'altro, e per quanto interessa in questa sede, il fallimento è espressamente qualificato come soggetto I.V.A.) (cfr. Cass. nn. 5623 del 1982 e 3715 del 1992). Le difficoltà o, per così dire, gli equivoci sono ingenerati dalla costruzione dottrinale secondo cui, nella fattispecie considerata - mentre il credito a titolo di compenso per prestazione professionale sorge al momento dell'esaurimento della prestazione stessa, e, ovviamente documentato (ad es., progetto di parcella liquidato dall'ordine in base a tariffe) ed ammesso al passivo, sarebbe credito certo liquido ed esigibile - il credito di rivalsa I.V.A. potrebbe costituirsi anche dopo la dichiarazione di fallimento: e ciò, in quanto, non potendo il pagamento del compenso essere effettuato che nell'ambito della procedura concorsuale, la relativa fatturazione e, quindi, l'addebito dell'I.V.A. al fallito, a titolo di rivalsa, può (e non già "deve", dal momento che era ipotizzabile la previa fatturazione anteriormente alla dichiarazione di fallimento: art. 6 comma 4 d.P.R. n. 633 del 1972) avvenire nel medesimo ambito (combinato disposto degli artt. 6 comma 3, 18 comma 1, 21 comma 4 d.P.R. n. 635 del 1972, come rispettivamente sostituiti dagli artt. 2 d.P.R. n. 793 del 1981, 1 d.P.R. n. 687 del 1974, 1 d.P.R. n. 24 del 1979). In ipotesi siffatte, ne conseguirebbe la natura non concorsuale del credito di rivalsa I.V.A., la sua qualificazione siccome credito prededucibile ex art. 111 comma 1 n. 1 L.F., e, infine, la sua detraibilità dall'importo I.V.A. dovuto dal fallimento all'erario, o, alternativamente, la sua rimborsabilità da parte del secondo al primo, il quale, in tal modo, non subirebbe alcun pregiudizio dall'addebito a sè della rivalsa e dalla sua anticipazione. Tale costruzione dottrinale, prospettata nel ricorso, non può essere condivisa per molteplici ragioni.

In primo luogo, l'adesione alla stessa implicherebbe, come conseguenza, una palese violazione dell'art. 3 comma 1 Cost. per disparità di trattamento di situazioni giuridiche identiche: infatti, la modalità di realizzazione del credito di rivalsa nell'ambito del fallimento - secondo la regola del concorso, ovvero in deroga alla stessa regola del concorso, ovvero in deroga alla stessa (prededucibilità ex art. 111 comma 1 n. 1 L.F.) - dipenderebbe dalla mera circostanza di fatto, non prescritta dalla legge e rimessa alla valutazione del soggetto I.V.A. - creditore di rivalsa (art. 6 commi 3 e 4 d.P.R. n. 633 del 1972), della fatturazione del corrispettivo precedentemente o successivamente alla dichiarazione di fallimento; con la conseguenza che, nell'ambito del medesimo fallimento, due o più creditori di rivalsa I.V.A. (situazioni giuridiche identiche) sarebbero trattati diversamente sul piano giuridico (realizzazione del credito di rivalsa secondo il principio del concorso o in deroga ad esso), non solo in carenza di un'espressa disposizione di legge, ma anche di qualsiasi ragionevole giustificazione, postoché la sottrazione alla regola del concorso dipenderebbe dalla mera volontà del creditore di rivalsa I.V.A.. In secondo luogo, come già accennato dianzi, il credito di rivalsa I.V.A. non può essere assolutamente qualificato come spesa o debito contratto per l'amministrazione del fallimento (art. 111 comma 1 n. 1 L.F.).

Siffatto credito, infatti, condivide, con i c.d. debiti della massa, unicamente il mero dato estrinseco della costituzione successiva alla dichiarazione di fallimento, non anche, però, la, per dir così, "causa fallimentare", e cioè la funzione della gestione del patrimonio del fallito, ovvero delle necessità di realizzazione del processo esecutivo concorsuale. L'art. 18 comma 1 d.P.R. n. 633 del 1972 individua, con riferimento alla fattispecie, l'atto costitutivo del rapporto obbligatorio di rivalsa nella "effettuazione" della prestazione di servizi imponibile; e dal combinato disposto di tale disposizione con gli artt. 6 commi 3 e 4, 17 comma 1 e 21 comma 4 dello stesso decreto emerge che a quell'atto (identificato, in funzione della rilevanza dell'operazione imponibile ai fini I.V.A., nel pagamento del corrispettivo o, comunque, nella fatturazione) è collegato il dovere di fatturazione del professionista (unico soggetto I.V.A.) e l'addebito doveroso dell'I.V.A. al committente (nel che consiste la natura "obbligatoria" della rivalsa).

In altri termini, la "effettuazione" dell'operazione imponibile spiega un duplice effetto: per un verso, quello di costituire il rapporto obbligatorio tributario fra soggetto I.V.A. (professionista) ed erario; per l'altro, quello di costituire, altresì, il "connesso", e doveroso, rapporto obbligatorio di rivalsa fra professionista (creditore a titolo di rivalsa) e committente (debitore a titolo di rivalsa).

Già descrivendo la struttura normativa del rapporto di rivalsa, non può non rilevarsi la assoluta estraneità del fallimento rispetto a tale rapporto, nonché la totale inassimilabilità del credito di rivalsa I.V.A. alla funzione dei debiti della massa: con riferimento a quest'ultimo rilievo, infatti, è utile rammentare che la "ratio" dell'istituto della rivalsa obbligatoria ("genus" al quale appartiene la rivalsa I.V.A.) sta anche nella traslazione del tributo su un determinato soggetto, comunemente individuato nel c.d. "consumatore finale"; sicché, appare ben difficile identificare tale soggetto con il fallimento, il quale non è destinatario della prestazione di servizi imponibile; ed appare, altresì, ben difficile identificare con il fallimento il soggetto legittimato e "prededurre" l'I.V.A. di rivalsa del professionista, salva la sua "detraibilità" o, alternativamente, la sua "rimborsabilità", postoché gli istituti della detrazione (artt. 17 comma 1 e 19 d.P.R. n. 633 del 1972) e del rimborso dell'I.V.A. si applicano al contribuente - soggetto I.V.A., che, nella fattispecie considerata, non è affatto il fallimento, bensì il professionista.

In terzo luogo, ed infine, il fatto che, prima, l'art. 18 comma 5 d.P.R. n. 633 del 1972 (come sostituito dall'art. 1 d.P.R. n. 687 del 1974), e, poi, l'art. 2758 comma 2 cod. civ. (come modificato dall'art. 5 L. 29 luglio 1975 n. 426) abbiano istituito un privilegio - generale sui mobili, la prima disposizione, e speciale su determinati mobili, la seconda - che assiste il credito di rivalsa I.V.A., sta a significare, innanzitutto, sempre con riferimento alla fattispecie, che la causa di prelazione del credito è giustificata proprio dalla eventualità che il professionista sia tenuto ad anticipare importi di I.V.A. non ancora incassati dal cliente debitore di rivalsa.

Lo schema tipico del tributo in questione - quale risulta dal combinato disposto degli artt. 17 e 18 d.P.R. n. 633 del 1972 (come modificati, rispettivamente, dagli artt. 1 d.P.R. n. 793 del 1981 ed 1 d.P.R. n. 687 del 1974) - funziona, infatti, nel senso che colui che cede beni o presta servizi nell'esercizio di impresa, arti o professioni deve addebitare al cliente un'imposta proporzionale al corrispettivo, versandone all'erario il relativo importo, previa detrazione dell'I.V.A. assolta sugli acquisti inerenti all'esercizio della propria attività; e ciò, allo scopo di assicurare, come già rilevato, la c.d. "neutralità" dell'imposta rispetto al numero dei passaggi compiuti dal bene o servizio prima di arrivare al "consumatore finale", estraneo all'esercizio di attività imprenditoriale, artistica o professionale.

Deve essere sottolineato, con riguardo alla fattispecie, che la detrazione dell'I.V.A. sugli acquisti ed il debito per l'I.V.A. sulle prestazioni sono attività collegate proprio con il momento della "effettuazione" della operazione imponibile (art. 6 d.P.R. n. 633); ma, siccome tale momento non sempre coincide con l'incasso od il pagamento, il professionista può avere vantaggi o svantaggi finanziari, a seconda che abbia anticipatamente detratto I.V.A. ancora non versata al fornitore, ovvero abbia anticipato all'erario importi di tributo, appunto non ancora incassati dal debitore di rivalsa (cliente).

Siffatto "rischio", generato dallo stesso meccanismo impositivo prefigurato dal legislatore, ma evidentemente connesso al rischio contrattuale generico (ritardo dell'adempimento o inadempimento dell'obbligo di pagamento del compenso nel contratto di prestazione d'opera intellettuale) sta proprio a fondamento della regola del "concorso" (artt. 2741 cod. civ. e 52 L.F.); sicché, da tale vertice di osservazione, assume valore determinante la circostanza che la prestazione d'opera intellettuale ed il relativo credito, a titolo di compenso, si riferiscono ad un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento, dominato, appunto, dal rischio contrattuale generico del ritardo nell'adempimento o dell'inadempimento, e non già il mero dato di fatto estrinseco della fatturazione del corrispettivo successivamente alla dichiarazione di fallimento. In altri termini, risulta priva di razionale giustificazione la sottrazione alla regola del concorso per un credito di rivalsa che si riferisce pur sempre ad una prestazione e ad un credito (compenso) sorti anteriormente alla dichiarazione di fallimento, tenuto anche conto che la "ratio" dell'eccezione al principio della "par condicio creditorum" sta proprio nell'esigenza di garantire dal predetto rischio il soggetto che "contratta" con l'imprenditore fallito. Del resto, la stessa previsione della postergazione del privilegio speciale a favore del credito di rivalsa I.V.A. rispetto a quello, generale, a favore del credito a titolo di compenso per prestazione d'opera intellettuale (combinato disposto degli artt. 2751 bis n. 2, 2758 comma 2, 2777 comma 2 lett. b, 2778 n. 7 cod. civ.), significa che il legislatore ha scelto di graduare diversamente, in ragione della "causa" dei distinti crediti, il rischio inerente alla loro realizzazione, ma non già di eliminarlo.

2.2.2. Così come sollevata, l'eccezione di illegittimità costituzionale - anche a voler prescindere dai profili di inammissibilità determinati dalla mancata indicazione delle disposizioni legislative affette, in tesi, dal vizio di incostituzionalità (art. 23 comma 1 lett. a legge n. 87 del 1953), mancanza che causa incertezza sulla rilevanza della questione - appare sostanzialmente incentrata sulla doglianza, secondo cui la decisione impugnata finirebbe con il far gravare l'I.V.A. su un soggetto (professionista) diverso da quello legislativamente obbligato (consumatore finale identificato con il fallimento); e ciò, in violazione dell'art. 52 Cost.. Così intesa, la questione di legittimità costituzionale sollevata potrebbe avere ad oggetto sia il combinato disposto degli artt. 2751 bis n. 2, 2758 comma 2, 2777 comma 2, 2778 n. 7 cod. civ. - nella parte in cui consentano che, in sede di ripartizione dell'attivo nelle procedure concorsuali, a causa delle difficoltà di realizzazione del credito di rivalsa I.V.A., l'imposta gravi in via definitiva su un soggetto diverso da quello legittimamente indicato come portatore della relativa capacità contributiva - sia, alternativamente, l'art. 111 comma 1 n. 1 L.F., nella parte in cui, non prevedendo fra i crediti "prededucibili " quello di rivalsa I.V.A., determinerebbe il medesimo effetto dianzi evidenziato in violazione dell'art. 53 Cost. -. Ma - anche a voler prescindere, si ribadisce, dai dubbi circa la rilevanza della questione sollevata - essa ha già formato oggetto, sia pure sotto il primo dei due possibili profili legislativi, di esame da parte della Corte Costituzionale (sent. n. 25 del 1984 e ordd. nn. 145 del 1984 e 311 del 1985): in tale occasione, la Corte ha osservato che l'assunto, secondo cui effettivo debitore dell'imposta nell'ipotesi di prestazione di servizi sia il committente e nel caso di cessione di beni il consumatore finale, non può essere condiviso, in quanto esso evidenzia il "risultato economico della rivalsa", che "non può costituire il presupposto cui è collegata la prestazione tributaria e in base al quale va individuata la capacità contributiva ai sensi dell'art. 53 Cost., intesa come idoneità soggettiva all'obbligazione d'imposta"; ed ha aggiunto che "l'art. 17 d.P.R. n. 633 del 1972, con lo stabilire che l'imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizio imponibili, identifica il presupposto dell'imposta in ciascuna delle anzidette operazioni economiche", sicché "la capacità contributiva va... riscontrata in tutti i soggetti che quelle operazioni pongono in essere".

Ed analoghe considerazioni ovviamente, varrebbero anche nell'ipotesi in cui dovesse ritenersi impugnata la disposizione di cui all'art. 111 comma 1 n. 1 L.F.; non senza sottolineare relativamente a tale disposizione, che un'interpretazione opposta a quella argomentata dianzi, tesa a sostenere la "prededucibilità" del credito di rivalsa I.V.A., ingenererebbe gravi dubbi di legittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 comma 1 Cost., sia sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento di situazioni identiche, sia sotto quello della intrinseca ragionevolezza della norma (cfr., supra, prg. 2.2). La sollevata questione di legittimità costituzionale deve, pertanto, essere dichiarata manifestamente infondata. 3. Non sussistono i presupposti per pronunciare sulle spese del grado.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 1 Sezione civile, l'11 ottobre 1993.