Diritto Societario e Registro Imprese


Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 19972 - pubb. 11/01/2018

Clausola compromissoria che deferisca le controversie tra società e soci ad un collegio arbitrale formato dai sindaci

Cassazione civile, sez. I, 11 Ottobre 2006, n. 21816. Est. Panzani.


Controversie tra società e soci - Risoluzione - Devoluzione al collegio sindacale - Relativa clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società cooperativa - Principio dell'imparzialità degli arbitri - Violazione - Conseguenze - Nullità della clausola

Clausola statutaria che deferisca ad un collegio arbitrale, composto dai sindaci la risoluzione delle controversie tra la società e i soci - Violazione del principio d'imparzialità degli arbitri - Sussistenza - Conseguenze - Nullità della clausola



È nulla la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società cooperativa, che deferisca le controversie tra la società e i soci ad un collegio arbitrale formato dai sindaci della società, per difetto del requisito dell'imparzialità degli arbitri (essenziale tanto nel caso di arbitrato rituale, quanto in quello di arbitrato libero), in quanto i sindaci, oltre alla funzione di controllo - che, peraltro, rappresenta anch'essa un aspetto dell'amministrazione dell'ente societario -, hanno un potere di iniziativa analogo a quello degli amministratori, o in sostituzione o in unione con essi, di modo che il collegio sindacale assume una importante partecipazione nella vita societaria e nell'elaborazione del relativo indirizzo, il che rende oggettivamente incompatibile, da parte dei componenti di tale organo, l'esercizio di una funzione "terza", quale quella di giudicare le predette controversie. (massima ufficiale)


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario - Presidente

Dott. GILARDI Gianfranco - Consigliere

Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere

Dott. PANZANI Luciano - rel. Consigliere

Dott. SCHIRO' Stefano - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

Svolgimento del processo

D.V.A. conveniva in giudizio la Cooperativa Rosalba s.c.r.l., con sede in (*), esponendo di essere socio prenotatario di un appartamento nel complesso residenziale edificato dalla cooperativa stessa e che, a seguito dell'assemblea del 26.3.1992, cui aveva partecipato senza approvare la delibera che ne era sortita, erano emerse irregolarità nella gestione ed ingiustizie nella divisione degli oneri economici, nella determinazione delle quote residue e degli interessi. Era pertanto necessario procedere alla revisione generale dei conteggi presentati dal Presidente della cooperativa nell'assemblea. Chiedeva quindi la sospensione, la declaratoria di nullità e/o l'annullamento della delibera, la revisione dei conteggi e la condanna della cooperativa al rimborso delle somme per cui egli sarebbe risultato creditore, previo esperimento di c.t.u. contabile.

Si costituiva in giudizio la cooperativa chiedendo il rigetto della domanda. Nelle more del giudizio il D.V. chiedeva ed otteneva sequestro conservativo in danno della cooperativa sino alla concorrenza di L. 300 milioni. Poichè il provvedimento coinvolgeva anche l'appartamento della prenotataria D.V.A., costei interveniva nel giudizio chiedendo la condanna della cooperativa alla restituzione della somma di oltre L. 115 milioni di cui sarebbe risultata creditrice e la riduzione del sequestro in modo che escludesse il suo appartamento.

La causa veniva istruita mediante prove documentali e c.t.u.

Il 19.12.1996 si costituiva in giudizio per la cooperativa, in aggiunta ad altro difensore già costituito, l'avv. Contestabile.

Precisate le conclusioni, i a causa veniva rimessa ad udienza collegiale ed era poi assegnata alla sezione stralcio del tribunale ed assunta a decisione dopo che era stato esperito il tentativo di conciliazione. Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere accoglieva la domanda del D.V., dichiarando nulla la costituzione in giudizio dell'avv. Contestabile per la cooperativa, convalidando il sequestro, dichiarando la nullità della delibera, assembleare, condannando la cooperativa al pagamento in favore del D.V. della somma di L. 71.827.577 ed ordinando alla cooperativa di procedere, ex art. 2932 c.c. all'intestazione al D.V. dell'appartamento di cui questi era prenotatario. Il tribunale inoltre rimetteva la causa in istruttoria per l'ulteriore corso relativamente alle domande proposte dall'interventrice volontaria D.V.A.

Avverso la sentenza proponeva appello la cooperativa. La Corte d'appello di Napoli con sentenza 14.1.2002 accoglieva parzialmente l'appello dichiarando valida la costituzione in giudizio in primo grado, per conto dell'appellante, dell'avv. Contestabile ed inammissibile la domanda ex art. 2932 proposta dal D.V. in sede di precisazione delle conclusioni, in quanto domanda nuova. Ad avviso della Corte i restanti motivi d'appello erano in parte inammissibili ed in parte infondati. Infondato il primo motivo con cui l'appellante si doleva che la causa, di competenza del tribunale in formazione collegiale, fosse stata decisa dal G.O.A. e dunque dal giudice monocratico, in quanto trattavasi di nullità relativa non tempestivamente eccepita in primo grado. Infondato il secondo motivo con cui l'appellante lamentava la violazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto della cooperativa, perchè tale clausola, che deferiva le controversie tra la società ed i soci al collegio sindacale, era nulla per difetto nei sindaci del requisito dell'imparzialità, essendo essi organo della società.

Infondato il terzo motivo con cui la cooperativa lamentava che il D.V. fosse stato ritenuto dal G.O.A. legittimato ad impugnare la delibera assembleare pur non essendo egli socio dissenziente, ma essendosi soltanto riservato di esaminare i conteggi in separata sede, perchè dopo la riserva il D.V. aveva agito in giudizio impugnando la delibera. Inammissibili il quinto ed il sesto motivo con cui la cooperativa si doleva che il giudice di primo grado avesse ritenuto ammissibile e fondata la domanda ed ammissibile la richiesta c.t.u. senza che l'attore avesse prima provato il suo assunto in ordine all'erroneità dei conteggi, come sarebbe stato suo onere fare, dando così corso ad un'indagine esplorativa. Tali motivi erano infatti generici, al pari del settimo con cui l'appellante aveva soltanto dedotto l'erroneità della c.t.u.

Generico ed infondato era l'ottavo motivo, relativo all'inammissibilità ed illegittimità del disposto sequestro conservativo. Infondato il nono motivo con cui l'appellante si lamentava della decisione del G.O.A. di rimettere la causa in istruttoria limitatamente alle domande proposte dall'interveniente D.V.A.

Avverso la sentenza ricorre per Cassazione la cooperativa, articolando otto motivi. Resiste con controricorso il D. V., che ha anche proposto ricorso incidentale con unico motivo.

 

Motivi della decisione

l. Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi principale ed incidentale ex art. 335 c.p.c.

Con il primo motivo del ricorso principale la cooperativa ricorrente deduce violazione degli artt. 50 bis c.p.c., art. 161 c.p.c., comma 1, art. 281 octies c.p.c. e art. 25 Cost. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 2, 3, 4, 5.

Con il primo motivo d'appello essa aveva dedotto che la causa, pur di competenza del tribunale in composizione collegiale ai sensi dell'art. 50 bis c.p.c., era stata decisa dal G.O.A. La Corte d'appello, pur non contestando la competenza del Tribunale in composizione collegiale, ha respinto il gravame affermando che nella specie era questione di nullità relativa, non dedotta tempestivamente nella prima udienza o difesa successiva alla remissione della causa alla sezione stralcio. Ad avviso della Corte napoletana, infatti, l'art. 50 bis riguarderebbe le sezioni ordinarie del tribunale e non le sezioni stralcio. Nella specie sarebbe stato violato il combinato disposto della L. n. 276 del 1997, artt. 1 e 11, istitutiva di tali sezioni, che esclude che ad esse possano essere assegnati i procedimenti per cui era prevista la trattazione avanti al tribunale in composizione collegiale ai sensi dell'art. 48 Ord. Giud. nel testo modificato dalla L. n. 353 del 1990, art. 88. L'art. 50 quater c.p.c., introdotto insieme al D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 50 bis, art. 56 nello stabilire che le disposizioni di cui agli artt. 50 bis e 50 ter non si considerano attinenti alla costituzione del giudice, escluderebbe che possa essere questione di nullità insanabile, con la conseguenza che dovrebbe applicarsi il già ricordato regime della nullità relativa, non tempestivamente dedotta dall'appellante.

Secondo la ricorrente tale conclusione sarebbe errata, in ragione del carattere eccezionale della regola della decisione collegiale in luogo della competenza monocratica. Ai sensi degli artt. 281 septies ed octies c.p.c. la competenza del giudice collegiale deve essere rilevata anche quando la causa sia già stata riservata o rimessa in decisione. Di conseguenza la Corte napoletana avrebbe dovuto rilevare la nullità e rimettere la causa al giudice collegiale, trattandosi di sentenza non definitiva ed essendo il giudizio ancora pendente in primo grado.

Il motivo non è fondato, anche se la motivazione addotta dalla Corte di merito deve essere corretta nel termini che seguono.

Va premesso che è pacifico in causa che il giudizio, che ha ad oggetto l'impugnazione di una delibera assembleare di società cooperativa, rientrava nella competenza del tribunale in composizione collegiale ai sensi dell'art. 48 bis Ord. Giud., n. 7, nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990, art. 88, trattandosi di controversia ". avente per oggetto rapporti sociali nelle società .., nelle società cooperative.". Tale competenza, per quanto qui interessa, è rimasta immutata con l'entrata in vigore dell'art. 50 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 51 del 1998, che indica espressamente le "cause di impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea..delle società, delle mutue assicuratrici e società cooperative..". Il D.Lgs. n. 5 del 1998, art. 135, lett. b) istitutivo del giudice unico di primo grado, ha stabilito che i procedimenti già pendenti avanti al tribunale alla data di entrata in vigore del decreto, tra cui la causa in esame, instaurata con citazione notificata il 28.4.1992, dovevano essere definiti dal tribunale sulla base delle nuova disciplina introdotta dal decreto, precisando peraltro che "la composizione del tribunale resta tuttavìa regolata dalle disposizioni anteriormente vigenti".

Occorre dunque far riferimento alla disciplina delle sezioni stralcio introdotta dalla L. n. 276 del 1997 e al regime previgente, relativo alla competenza in composizione monocratica e collegiale del tribunale, dettato dall'art. 48 Ord. Giud. Tale norma era integrata dall'art. 274 bis c.p.c, poi abrogato dal D.Lgs. n. 51 del 1998, che disponeva al comma 1 che "Il collegio, quando rileva che una causa, rimessa dinanzi a lui per la decisione, deve essere decisa dal giudice istruttore in funzione di giudice unico, rimette la causa dinanzi a quest'ultimo con ordinanza non impugnabile. Il giudice istruttore provvede ai sensi dell'articolo 190 bis". L'ultimo comma della norma stabiliva poi che "alla nullità derivante dalla inosservanza delle disposizioni do legge relative alla composizione del tribunale giudicante si applicano gli articoli 158 e 161 c.p.c., comma 1".

Da questa disciplina, applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis in virtù del già ricordato D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 135, lett. b) si evince che la violazione delle norme in ordine alla composizione del tribunale, costituisce vizio di costituzione del giudice e dunque è causa di nullità assoluta. Peraltro, in virtù del richiamo dell'art. 161 c.p.c., comma 1, la nullità si converte in motivo di gravame, senza che debba farsi luogo a remissione della causa al giudice di primo grado.

In questo senso si è espressa questa Corte, in fattispecie del tutto analoga a quella in esame, affermando che ?alla nullità derivante da vizio di costituzione del giudice, ancorchè assoluta e rilevabile d'ufficio, si applica, in forza della disciplina di cui all'art. 274 bis cod. proc. civ., inserito nel codice di rito dalla L. n. 353 del 1990, art. 31 e abrogato a partire dal 2 giugno 1999, il disposto degli artt. 158 e 161 cod. proc. civ., comma 1, e dunque il principio di conversione delle cause di nullità in motivi d'impugnazione, con la conseguenza che la mancata, tempestiva denuncia del vizio "de quo" comporta la necessità di farlo valere attraverso lo strumento dell'impugnazione, così che la mancata denuncia di detta nullità in sede di gravame comporta l'impossibilità di rilevarla e, in definitiva, la sua sanatoria, senza che tale disciplina possa ritenersi in contrasto con i principi di cui agli artt. 3, 24 e 25 Cost. o contraria ai principi di legalità - artt. 102 e 111 Cost.

(Cass. 7.10.2004, n. 19992). Si trattava di fattispecie relativa a controversia societaria decisa in composizione monocratica anzichè collegiale, nonostante le previsioni dell'art. 48 Ord. Giud., comma 2, n. 7 nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 51 del 1998. E' appena il caso di sottolineare che, contrariamente all'assunto della ricorrente, la questione non può essere risolta alla luce dell'orientamento di questa Corte che ha affermato che il problema se una controversia debba essere decisa dal giudice onorario aggregato presso la sezione stralcio ovvero dal tribunale in composizione collegiale non da luogo ad una questione di competenza, ma di rito e non può essere dedotto in sede di regolamento di competenza (Cass. 21.5.2001, n. 6905). Quanto affermato comporta che non possa ricorrersi ad un dato mezzo d'impugnazione, ma non toglie che la violazione delle norme in ordine al corretto svolgimento del processo possa dar luogo a nullità, come tale denunciabile con il ricorso ordinario per cassazione.

NOn ritiene il Collegio di poter condividere la tesi sostenutàdalla Corte napoletana secondo la quale nella specie troverebbe applicazione l'art. 50 quater c.p.c. nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 51 del 1998, secondo il quale le disposizioni di cui agli artt. 50 bis e 50 ter non si considerano attinenti alla costituzione del giudice ed alla nullità derivante dalla loro inosservanza si applica l'art. 161 c.p.c., comma 1. Tale norma, infatti, che innova rispetto al differente principio sancito dall'art. 274 bis, per l'appunto abrogato dal D.Lgs. n. 51 del 1998, non può trovare applicazione nel presente giudizio posto che ai sensi dell'art. 135, lett. b) dello stesso decreto "la composizione del tribunale resta regolata dalle disposizioni anteriormente vigenti", tra le quali non può non essere ricompreso il regime delle nullità conseguenti alla violazione dei principi in tema di composizione del giudice.

Nè, per altro verso potrebbe sostenersi che la violazione della ripartizione - della competenza tra sezioni ordinarie e sezione stralcio del tribunale darebbe luogo a diversa disciplina, sanzionata per quanto concerne la sezione stralcio soltanto con il regime della nullità relativa. In proposito è sufficiente osservare da un lato che la L. n. 276 del 1997, artt. 1 e 11, non disciplinano espressamente le conseguenze della violazione della ripartizione di competenza, con ciò rinviando implicitamente alle regole previste dal codice di rito, e dall'altro, che sarebbe palesemente assurdo ritenere che il legislatore avesse diversamente regolato le conseguenze della violazione della ripartizione di competenza tra tribunale in composizione collegiale ed in composizione monocratica a seconda che a pronunciare fosse stato chiamato un giudice appartenente ad una sezione ordinaria ovvero alla sezione stralcio.

Infine è priva di fondamento la tesi della ricorrente secondo la quale la nullità conseguente alla violazione della ripartizione di competenza tra G.O.A. e tribunale in composizione collegiale dovrebbe dar luogo a rimessione della causa al primo giudice trattandosi di impugnazione avverso sentenza parziale. In proposito è sufficiente rilevare che tale ipotesi non rientra nell'ambito tassativo delle previsioni degli artt. 353 e 354 c.p.c., che indicano i casi di rimessione al giudice di primo grado, non senza aggiungere che la Corte d'appello ha sottolineato che la sentenza di primo grado aveva completamente definito la controversia promossa dall'odierno controricorrente, non pronunciando soltanto sulle domande, del tutto autonome, proposte da un interveniente volontario, sì che deve escludersi che vi sia stata violazione del principio del contraddittorio.

Nel caso di specie peraltro la Corte d'appello, pur ritenendo erroneamente che la dedotta nullità rientrasse nell'ambito delle nullità relative e che pertanto il suo esame fosse precluso, ha esaminato tutte le altre censure che erano state dedotte con l'impugnazione, rispettando pertanto il principio sancito dal combinato disposto degli artt. 274 bis c.p.c. e art. 161 c.p.c., comma 1. Ne deriva che deve ritenersi che difetti l'interesse a far valere come motivo di ricorso per Cassazione la nullità della sentenza di primo grado in quanto non dichiarata dal giudice d'appello, perchè l'eventuale rinvio ad altro giudice d'appello porterebbe allo stesso risultato già conseguito con la pronuncia su tutti i motivi d'impugnazione (Cass. 11.5.2006, n. 10869; Cass. 7.11.2001, n. 13781; Cass. 16.7.1996, n. 6427).

2. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 806 e 808 c.p.c. nonchè dell'art. 25 Cost., nonchè difetto di motivazione in relazione al rigetto da parte della Corte d'appello del secondo motivo di gravame con cui la cooperativa censurava la decisione di primo grado deducendo l'incompetenza del giudice ordinario a conoscere della controversia per l'esistenza nello statuto societario di clausola compromissoria che affidava al collegio sindacale ogni controversia sociale. In proposito la Corte territoriale ha ritenuto la nullità della clausola in ragione dell'impossibilità per i sindaci di svolgere la funzione di arbitri imparziali in virtù della loro funzione all'interno della società di controllo e di partecipazione lato sensu all'amministrazione.

Obietta la ricorrente, premesso che l'arbitrato avrebbe natura irrituale, che i sindaci, proprio per la funzione di controllo da essi esplicata, per la quale possono essere chiamati a rispondere in caso di violazione degli obblighi su di essi gravanti, possono svolgere anche la funzione di arbitri in virtù delle maggior responsabilità che la loro carica comporta, che costituirebbero garanzia di maggior imparzialità.

Tale conclusione non può essere accolta.

Va in primo luogo osservato che la ricorrente cooperativa non ha neppure dedotto di aver contestato in sede di merito la natura rituale dell'arbitrato. Del resto il carattere irrituale dello stesso viene soltanto affermato in termini apodittici. Va poi aggiunto, alla luce del costante orientamento di questa Corte, che è nulla la clausola compromissoria, contenuta nello statuto di una società cooperativa, che deferisca le controversie tra la società e i soci ad un collegio arbitrale formato dai sindaci della società, per difetto del requisito dell'imparzialità degli arbitri (essenziale tanto nel caso di arbitrato rituale, quanto in quello di arbitrato libero), in quanto 1 sindaci, oltre alla funzione di controllo - che, peraltro, rappresenta anch'essa un aspetto dell'amministrazione dell'ente societario -, hanno un potere di iniziativa analogo a quello degli amministratori, o in sostituzione o in unione con essi, di modo che il collegio sindacale assume una importante partecipazione nella vita societaria e nell'elaborazione del relativo indirizzo, il che rende oggettivamente incompatibile, da parte dei componenti di tale organo, l'esercizio di una funzione "terza", quale quella di giudicare le predette controversie (Cass. 21.6.1996, n. 5778; Cass. 6.3.2001, n. 3240; Cass. 30.5.2001, n. 7350; Cass. 3.5.1984, n. 2680). Ciò in quanto è principio assolutamente pacifico che la nomina degli arbitri non può essere effettuata da una sola delle parti litiganti, ma deve promanare da tutti i compromittenti a garanzia dell'imparzialità dell'arbitro così nominato, essendo tale imparzialità un'esigenza di ordine pubblico che trascende l'interesse individuale delle parti.

3. Con il terzo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui, nel ritenere rituale la costituzione in giudizio per la stessa ricorrente dell'avv. Contestabile, effettuata in primo grado all'udienza di precisazione delle conclusioni del 19.12.1996 mediante deposito di comparsa di costituzione "in aggiunta", non avrebbe tratto le debite conclusioni dalla ritenuta ritualità della costituzione. In particolare la Corte d'appello avrebbe dovuto rimettere la causa al primo giudice a mente dell'art. 354 c.p.c. perchè la ritenuta rituale costituzione dell'avv. Contestabile incideva anche sulla posizione del terzo intervenuto D.V. A. Inoltre il G.O.A. aveva dichiarato la nullità degli atti costitutivi e difensivi compiuti dall'avv. Contestabile e la Corte territoriale non avrebbe provveduto a trarre le debite conclusioni in ordine alla ritualità di tali atti, valutando ai fini del decidere tutta l'attività difensiva compiuta dall'avv. Contestabile relativa sia alle verbalizzazioni in udienza, sia agli atti difensivi depositati sia ai documenti prodotti.

La ricorrente lamenta quindi violazione degli artt. 75, 83, 101 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 - 4 - 5; violazione dell'art. 281 quater e degli artt. 275 e se. c.p.c. sempre in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - 4 - 5; violazione dei principi di effettività della difesa, di esercizio dell'azione e del contraddittorio nonchè del diritto di difesa; violazione dell'art. 354 c.p.c. ancora in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 - 4 - 5; violazione dell'art. 24 Cost. comma 2 e 4, e art. 111 Cost. oltre che difetto di motivazione. Il motivo è inammissibile.

Va premesso che la Corte d'appello ha ritenuto valida, diversamente dal giudice di primo grado, la costituzione in giudizio dell'avv. Contestabile in aggiunta all'avv. Giordano quale difensore della cooperativa, ma non ha pronunciato in ordine all'attività processuale compiuta dal nuovo difensore per conto della cooperativa, attività processuale che il primo giudice non aveva considerato, dichiarando anzi la nullità degli atti compiuti nell'interesse della cooperativa dall'avv. Contestabile.

Sennonchè nel dolersi che la Corte territoriale non abbia pronunciato nel merito tenendo conto dell'attività processuale svolta dall'avv. Contestabile, e dunque delle difese contenute nelle verbalizzazioni, negli scritti difensivi e dei documenti prodotti, la ricorrente non indica quali Specifiche eccezioni e prove non siano state considerate dai giudici d'appello e come tali deduzioni abbiano inciso sulla sentenza impugnata. Anche la doglianza con cui la ricorrente afferma che la Corte napoletana avrebbe dovuto rimettere gli atti al primo giudice, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., perchè vi sarebbe stata lesione del principio del contraddittorio, in quanto l'interveniente D.V. avrebbe potuto beneficiare degli effetti del contraddittorio esteso alle difese svolte dall'avv. Contestabile, non si sottrae alla censura di genericità, perchè non chiarisce a quali specifiche eccezioni e prove s'intenda far riferimento. Non senza rilevare che la ricorrente difetta d'interesse a far valere la violazione del principio del contraddittorio che si traduca nella violazione del diritto di difesa di altra parte processuale.

Non è quindi soddisfatto il requisito di specificità del motivo, che va conseguentemente dichiarato inammissibile.

4. Con il quarto motivo la cooperativa ricorrente deduce violazione degli artt. 1137 e 2377 c.c. ed errore di diritto in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - 4 - 5. Osserva che la Corte d'appello ha ritenuto irrilevante la circostanza, denunciata con apposito motivo di gravame, che il giudice di prime cure avesse fatto riferimento all'art. 1137 c.c., anzichè all'art. 2377 c.c., con ciò manifestando di confondere la disciplina dell'impugnativa della delibera societaria con quella relativa invece al condominio. Lamenta Inoltre che la Corte abbia considerato il controricorrente D. V. legittimato all'impugnativa della delibera, ancorchè egli non fosse dissenziente, ma al contrario si fosse soltanto riservato di "meglio esaminare" i conteggi, approvando gli altri punti all'ordine del giorno che con quella parte della delibera erano connessi.

Il motivo non è fondato.

Va premesso che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile per genericità il motivo d'appello relativo alla errata citazione da parte del giudice di primo grado dell'art. 1137 c.c., in luogo dell'art. 2377 c.c., perchè in effetti l'odierna ricorrente non ha tratto nella sua censura dall'errore commesso dal tribunale e da essa denunciato alcuna conseguenza specifica ad essa pregiudizievole. Perchè sia soddisfatto il requisito della specificità dei motivi d'appello previsto dall'art. 342 c.p.c., occorre cioè che alla denuncia degli errori commessi dal primo giudice si accompagni l'individuazione della pretesa ingiustizia od illegalità del provvedimento impugnato a tali errori causalmente connessa.

Va poi osservato che risulta dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata che il D.V. partecipò all'assemblea del 26.3.1992 senza approvare la delibera assunta in tale sede e facendo anzi riserva di verifica dei conteggi presentati ai soci per l'approvazione. La Corte territoriale, nel confutare la tesi espressa dall'odierna ricorrente nei motivi d'appello secondo la quale, limitando l'art. 2377 c.c. la legittimazione ad impugnare ai soci assenti o dissenzienti, non poteva essere parificato al dissenziente il socio che, come nel caso di specie, si fosse limitato a fare riserva di verifica dei conteggi, ha osservato che non poteva esservi differenza tra il socio dissenziente ed il socio riservatario, posto che il D.V. aveva impugnato la delibera.

Tale conclusione è manifestamente contraddittoria, perchè se la legittimazione ad impugnare è riservata al socio dissenziente (non interessa qui la diversa figura del socio assente), la qualità di dissenziente non può essere individuata con riguardo alla circostanza di aver successivamente impugnato la delibera, perchè tale impugnazione presuppone proprio quella legittimazione di cui si discute. Va peraltro osservato che questa Corte ha affermato che in tema di delibere assembleari delle società di capitali, la legittimazione ad impugnare le deliberazioni che non siano prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo spetta oltre che agli amministratori ed ai sindaci, anche ai soci assenti e dissenzienti, intendendosi per dissenzienti i soci che abbiano negato, in qualsiasi forma manifestata in assemblea, il proprio contributo all'approvazione della delibera, attraverso il voto contrario ~l'astensione, senza che rilevi la motivazione di tali comportamenti -che può indifferentemente consistere in una diversa valutazione dell'atto rispetto alla maggioranza ovvero in una contestazione di vizi della procedura -, in quanto l'art. 2377 cod. civ. non da rilievo intrinseco ai motivi del dissenso, ma esclusivamente alla sua manifestazione (Cass. 21.11.1996, n. 10279). Nella specie è stata confermata la decisione di merito che ha ritenuto non legittimati all'impugnazione i soci di una cooperativa che avevano dedotto in sede giudiziaria la violazione della regola statutaria sulla segretezza del voto nelle elezioni per le cariche sociali, senza aver espresso, attraverso una qualsiasi dichiarazione nel verbale assembleare, il rifiuto a concorrere all'approvazione della delibera impugnata. Nel caso in esame, per l'appunto, il D.V. si è riservato di verificare i conteggi senza concorrere ad approvare la delibera sul punto relativo ai conteggi stessi e dunque non ha partecipato all'approvazione della delibera, sì che non può dubitarsi della sua legittimazione a proporre impugnazione.

5. Con il quinto motivo la società ricorrente deduce violazione del principio dell'onere della prova e dell'art. 2377 c.c. La Corte napoletana ha ritenuto inammissibile, perchè generico, il motivo d'appello con cui la cooperativa eccepiva, come riferisce l'impugnata sentenza, la "mancanza di prova in ordine all'ammissibilità, procedibilità, legittimazione e fondatezza della domanda introduttiva", aggiungendo quale motivazione del rilievo che "su detti punti nessuna prova ha fornito l'attore".

Osserva ora la ricorrente che il D.V. avrebbe impugnato la delibera senza fornire alcuna prova di violazione di norme di legge o di statuto, come richiesto dall'art. 2377 c.c. ed ottenendo l'esperimento di una c.t.u. contabile sulla regolarità dei conteggi posti a fondamento del bilancio, c.t.u. che non è mezzo di prova, ma strumento di valutazione delle prove aliunde acquisite. Di qui la violazione legge denunciata, perchè era onere dell'attore provare i fatti costitutivi della domanda, senza che sul punto occorresse nessuna ulteriore specificazione od illustrazione. Il motivo non è fondato.

E' principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il requisito della specificità dei motivi di appello, pur non richiedendo l'impiegò di formule sacramentali, esige un'esposizione chiara ed univoca delle doglianze e delle domande rivolte al giudice del gravame (Cass. 27.7.2000, n. 9867). I motivi debbono consentire non soltanto di individuare le questioni costituenti l'oggetto e l'ambito del riesame richiesto al giudice di secondo grado, ma anche di identificare le concrete ragioni per cui se ne invoca la riforma (Cass. 21.2.1997, n. 1599).

Nel caso in esame l'appellante, come risulta dalla sentenza impugnata, si è limitata in termini assolutamente generici a dedurre che l'attore in primo grado non aveva fornito prova di violazione di legge o dello statuto. La ricorrente, nell'affermare che i giudici d'appello hanno ritenuto raggiunta la prova sulla base di una consulenza tecnica che aveva assunto carattere esplorativo, non nega in sostanza quanto ritenuto dalla Corte di merito.

La Corte d'appello ha pertanto fatto buon governo dei principi ora esposti, sottolineando l'assoluta genericità del mezzo di gravante, che in nessun modo chiariva le ragioni poste a fondamento della censura formulata.

6. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta violazione dell'art. 61 c.p.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 - 4 - 5. Con il sesto e settimo motivo d'appello la cooperativa si era doluta che il giudice di primo grado avesse disposto una c.t.u. contabile inammissibile per non aver assolto l'attore l'onere della prova su di lui gravante, risolventesi quindi in un'indagine esplorativa di tutta la contabilità che esulava dall'oggetto della causa, ed aveva lamentato l'erroneità della c.t.u., perchè il giudice di primo grado non aveva valutato l'attività difensiva svolta dall'avv. Contestabile.

La Corte d'appello ha ritenuto entrambi i motivi generici, il sesto perchè di esso si comprenderebbe soltanto che ad avviso dell'appellante la c.t.u. non sarebbe stata ammissibile perchè esulante dal contenuto della delibera impugnata e chiesta per supplire al mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte dell'attore, il settimo perchè motivato con rinvio generico all'attività difensiva svolta dall'avv. Contestabile e non considerata dal giudice di primo grado, in ragione della ritenuta inammissibilità della costituzione in giudizio di quest'ultimo. Nel contestare le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito, la ricorrente osserva ora che i motivi d'appello erano concatenati con l'attività difensiva svolta dall'avv. Contestabile in primo grado, attività che doveva automaticamente ritenersi ricompresa nel motivo di gravame, senza necessità che essa dovesse essere riprodotta nell'atto d'appello. Con riferimento al settimo motivo d'appello aggiunge che era d'obbligo il rinvio ai documenti prodotti dall'avv. Contestabile, in particolare ad una certificazione da cui risultava che gli immobili erano di proprietà della cooperativa al 75% e tale proprietà si riferiva soltanto a tre di essi.

Ad avviso della ricorrente la lamentata lesione del diritto al contraddittorio, connessa con la ritenuta nullità della costituzione in giudizio dell'avv. Contestabile, e l'effetto devolutivo comportano che gli atti e documenti prodotti in primo grado dall'avv. Contestabile dovrebbero essere considerati come proposti al giudice d'appello.

Il motivo non è fondato.

La Corte d'appello ha osservato che è onere della parte appellante indicare specificamente nell'atto di gravame le ragioni dell'eccepita erroneità della decisione che ha recepito la consulenza, aggiungendo, quanto al sesto motivo d'appello, che di esso si comprendeva soltanto che la c.t.u. non sarebbe stata ammissibile in quanto esulante dalla delibera e chiesta per supplire alla mancanza di prove da fornirsi da parte dell'attore. Ha poi osservato che il riferimento alla comparsa di costituzione aggiuntiva e alla comparsa conclusionale (atti redatti dall'avv. Contestabile è non considerati dal giudice di primo grado) era inammissibile perchè effettuato in violazione del principio di specificità dei motivi ex art. 342 c.p.c.

Con riferimento al settimo motivo d'appello la Corte ha rilevato che l'eccepita erroneità della c.t.u. era dedotta quale "dato documentalmente dimostrato, per tutti i rilievi, impugnazioni ed eccezioni illegittimamente non considerate così come chiaramente è stato dichiarato in sentenza dal GOA", in contrasto con il medesimo principio.

E' principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la specificità dei motivi di appello richiesta dall'art. 342 cod. proc. civ., impone all'appellante di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza impugnata, in modo che sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da chi ha proposto l'impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata, dovendosi perciò ritenere inammissibile l'appello quando, per l'individuazione dei motivi, l'appellante si richiami genericamente alle deduzioni, eccezioni e conclusioni della comparsa depositata in primo grado o ad altri scritti difensivi (cfr. ex multis Cass. 16.12.2005, n. 27727; Cass. 20.1.1999, n. 498). Una volta rimossa la declaratoria d'inammissibilità della costituzione in giudizio dell'avv. Contestabile, oggetto d'altro motivo d'appello accolto dalla Corte partenopea, era pur sempre onere dell'appellante, per soddisfare il principio sancito dall'art. 342 c.p.c., riproporre in termini precisi le argomentazioni fatte valere con quelle difese e richiamare in termini altrettanto specifici i documenti su cui si fondava l'impugnazione e che il giudice di primo grado aveva rifiutato di esaminare.

7. Con l'ottavo motivo (in realtà settimo) la ricorrente deduce violazione dell'art. 671 c.p.c. per aver la Corte d'appello respinto il motivo di gravame con cui la cooperativa aveva lamentato l'inammissibilità ed l'illegittimità del sequestro conservativo concesso dal giudice di primo grado a favore del D.V. ed eseguito sugli immobili di proprietà della cooperativa. Lamenta che il sequestro sia stato eseguito su appartamenti prenotati da altri soci della cooperativa oltre che su quello prenotato dall'attore D.V. Il sequestro era stato concesso perchè l'attore era risultato creditore di circa L. 72 milioni sulla somma complessivamente versata di 211 milioni, ma il giudice non avrebbe considerato che, se ciò era vero, anche gli altri soci dovevano trovarsi nelle medesime condizioni. Inoltre il rigetto da parte della Corte territoriale della domanda del D.V. ex art. 2932 c.c., avrebbe dovuto comportare la riduzione del sequestro. La Corte d'appello non avrebbe motivato in proposito. In realtà la Corte d'appello ha sottolineato che il motivo si fondava sul presupposto dell'erroneità della consulenza tecnica dedotta con il settimo motivo d'appellò, ritenuto inammissibile per genericità, sì che generico era anche 11 motivo in esame. Sul punto la ricorrente non ha formulato censure alla motivazione della sentenza impugnata, sì che il motivo va dichiarato inammissibile per non aver colto la ratio decidendi della sentenza stessa.

8. Con il nono motivo (in realtà ottavo) la ricorrente censura la sentenza impugnata, lamentando violazione del rito, errore di diritto e violazione del diritto di difesa, per aver rigettato il nono motivo d'appello con cui era stata impugnata la decisione del giudice di primo grado di rimettere la causa in istruttoria in relazione alle sole domande proposte dall'interventrice D.V.

Ad avviso della ricorrente il G.O.A. non avrebbe potuto definire il giudizio relativamente alle domande proposte dal solo attore D. V., perchè il giudizio da questi proposto dipendeva dalla pronuncia sulle domande proposte dall'interventrice volontaria, in ragione del sequestro richiesto dal D.V. ed eseguito sull'appartamento prenotato dalla D.V.

L'esito del giudizio promosso dal D.V. coinvolgerebbe gli interessi dell'interventrice e la rimessione in istruttoria in relazione alle domande proposte da quest'ultima comporterebbe disparità di trattamento con possibile contrasto di giudicati, perchè il giudice di primo grado non potrebbe non tener conto dell'attività difensiva svolta dall'avv. Contestabile per la coooperativa, attività di cui non è stato tenuto invece conto nel pronunciare sulle domande proposte dal D.V.

Sul punto la Corte di Napoli ha osservato che le determinazioni del giudice di primo grado in ordine alla rimessione in istruttoria relativamente alle sole domande dell'interventrice potranno essere oggetto d'esame soltanto in sede d'impugnazione della decisione che sarà a suo tempo resa dal giudice di primo grado su tale domanda.

Va premesso che il giudice di primo grado nel ritenere il giudizio non ancora maturo per la decisione relativamente alle domande proposte dall'interventrice volontaria, ha provveduto ai sensi dell'art. 279 c.p.c., n. 5, disponendo ex art. 103 c.p.c., comma 2, la separazione della causa connessa proposta dall'interventrice volontaria in quanto la sua definizione avrebbe ritardato la definizione del giudizio principale. In tal caso la decisione di separazione dei giudizi può essere impugnata con l'appello, perchè con esso non è stata censurata un'ordinanza con la quale il giudice abbia provveduto per l'istruttoria della causa separata, bensì il provvedimento della sentenza con il quale è stata posta in essere la separazione delle cause (Cass. 29.3.1979, n. 1815).

La Corte d'appello ha pertanto errato nell'affermare che la censura dell'appellante avrebbe potuto essere fatta valere soltanto in sede di impugnazione della sentenza di primo grado di definizione del giudizio nei confronti della D.V. Tuttavia il motivo d'appello, così come l'odierno motivo di ricorso per cassazione, era generico - e tale vizio ben può essere rilevato in questa sede - perchè a suo fondamento la cooperativa ha dedotto un possibile contrasto di giudicati tra la sentenza che ha definito il giudizio relativamente alle domande proposte dal D.V. e la futura pronuncia relativa alle domande della D.V. in ragione del fatto che la prima sentenza non avrebbe tenuto conto dell'attività difensiva posta in essere dall'avv. Contestabile mentre la seconda di tale attività processuale avrebbe dovuto tener conto. Ora tale rilievo, oltre ad essere ipotetico - perchè la seconda sentenza ancora non è stata pronunciata, è generico perchè, come già si è detto, la ricorrente nè in questa sede nè in sede d'appello, ha precisato quale fosse il contenuto dell'attività difensiva dell'avv. Contestabile e dei documenti da questi prodotti che avrebbe inciso sul contenuto della decisione.

10. Con l'unico motivo di ricorso incidentale il D.V. lamenta che la Corte d'appello abbia accolto l'appello della cooperativa in ordine all'inammissibilità della domanda ex art. 2932 c.c., da lui proposta in primo grado in sede di precisazione delle conclusioni, in base al rilievo che non vi era stata accettazione del contraddittorio da parte della cooperativa.

Osserva, richiamando la giurisprudenza di questa Corte che afferma che vi è accettazione del contraddittorio quando l'opposizione alla domanda nuova sia effettuata non in sede di precisazione delle conclusioni, ma in comparsa conclusionale, che l'opposizione del D.V. era stata generica, il ricorso non è fondato.

Va premesso che secondo la giurisprudenza di questa Corte nei giudizi ai quali non si applica la novella n. 353 del 1990 è ammissibile l'accettazione del contraddittorio sulle domande nuove formulate in primo grado solo fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, e non in comparsa conclusionale, avendo questa soltanto la funzione di illustrare le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fondano le domande e le eccezioni già proposte (Cass. 27.7.2004, n. 14121).

Ancora la domanda proposta all'udienza di precisazione delle conclusioni deve ritenersi ritualmente introdotta in giudizio, per accettazione implicita del contraddittorio qualora la parte nei cui confronti essa è rivolta non ne abbia eccepito nella stessa udienza la preclusione, non essendo utile allo scopo l'opposizione fatta in comparsa conclusionale (Cass. 29.11.2001, n. 15185; Cass. 15.7.2003, n. 11064).

Nel caso di specie, la Corte d'appello ha ritenuto che non vi fosse stata accettazione implicita del contraddittorio posto che la cooperativa in sede di precisazione delle conclusioni aveva espressamente dichiarato di non accettare il contraddittorio su domande nuove. L'interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti da luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, salvo che si deduca che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell'ambito dell'art. 112 cod. proc. civ., a norma del quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e comunque un error in procedendo; in tal caso, infatti, deducendosi siffatto vizio, la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere - dovere di procedere direttamente all'esame e all'interpretazione degli atti processuali (Cass. 5.10.2002, n. 14303).

Nel caso di specie la ricorrente incidentale ha dedotto violazione dell'art. 101 c.p.c., sì che la censura è ammissibile, ma infondata. Ed invero la Corte d'appello ha correttamente pronunciato, posto che la cooperativa in sede di precisazione delle conclusioni aveva rifiutato il contraddittorio sulle domande nuove e tale deduzione non poteva ritenersi generica, perchè non era questione di domande nuove se non con riferimento alla domanda ex art. 2932 c.c. proposta dal D.V. per la prima volta proprio in sede di precisazione delle conclusioni.

Al rigetto di entrambi i ricorsi segue, in ragione della prevalente soccombenza, la condanna della ricorrente alle spese, liquidate in Euro 2.500,00 di cui Euro 2.400,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessorie come per legge.

 

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi. Condanna la ricorrente principale alle spese, liquidate in Euro 2.500,00 di cui Euro 2.400,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessorie come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 settembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2006.