CrisiImpresa


Il Caso.it, Sez. Articoli e Saggi - Data pubblicazione 20/04/2024 Scarica PDF

Strumenti per la regolazione della crisi e diritto alla detrazione dell'IVA. Le asimmetrie che penalizzano il concordato giudiziale

Luigi Lucchetti, Dottore commercialista in Roma


Autorevole dottrina si è espressa sulla scelta dello strumento di regolazione della crisi evidenziando come, rispetto al passato, il Codice della Crisi non mette al centro il patrimonio in funzione del soddisfacimento dei creditori, ma l’attitudine della prosecuzione dell’impresa a permanere sul mercato, direttamente o indirettamente. La filosofia fatta propria dal Codice è incentrata sulla possibilità di ripresa dell’attività laddove questa appaia idonea a generare valore per i creditori, per il sistema economico in generale e persino per l’Erario, giacché l’introduzione del cram down è stata giustificata con l’interesse a ché l’impresa, tornata in bonis, possa generare nuove entrate tributarie.

La liquidazione giudiziale è l’estrema ratio solamente se non sia prefigurata una ripresa dell’attività, tuttavia ancora possibile se oggetto del concordato giudiziale sia l’azienda o un ramo di essa che valga la pena di preservare.

Come correttamente rilevato da autorevole dottrina “nel sistema delineato dal Codice, l’impresa commerciale (non minore) può ricorrere o essere assoggettata a tutti gli istituti disciplinati dal Codice medesimo, mentre sussistono limitazioni per l’impresa agricola e l’impresa minore.”[1]

E’ stato giustamente osservato che l’insolvenza, a meno che non sia irreversibile, non può e non dovrebbe rappresentare un impedimento alla ristrutturazione, a condizione che l’azienda sia ancora in grado di gestire le proprie attività in equilibrio finanziario[2]. A maggior ragione, sotto un profilo logico, a un’impresa in crisi, ma non irreversibilmente insolvente, non dovrebbe essere impedito l’accesso a una ristrutturazione che si realizzi mediante un concordato giudiziale pur con i rischi che, evidentemente, una simile scelta comporta per le attività liquidatorie che la curatela potrebbe porre in essere prima dell’omologazione della proposta concordataria. Detti rischi tuttavia possono essere mitigati laddove il binomio liquidazione giudiziale/concordato giudiziale sia programmato dal debitore con intelligenza, buona fede e correttezza verso i creditori.

Sebbene l’articolo 2 comma m bis del Codice della Crisi definisca gli strumenti della regolazione della crisi e dell’insolvenza le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio”, la quasi totalità degli autorinon annovera tra questi il concordato giudiziale, focalizzando invece l’attenzione sulla gravità dello stato di crisi, al quale si fa corrispondere quello strumento che, al suo grado inferiore, implica un minore coinvolgimento del Tribunale e degli organi da esso nominati per la sua gestione.

In altri termini, malgrado il Codice non delinei affatto un rapporto diretto fra gravità della crisi e strumento idoneo a risolverla, si tende generalmente, e forse inconsapevolmente, a preferirne uno tanto più invasivo quanto più grave essa si appalesi e a privilegiare le procedure che prevedono un maggior coinvolgimento dei creditori per le crisi più agevolmente risolvibili.

A confermare l’assenza di una relazione diretta tra gravità e procedura idonea, l’articolo 84 del Codice consente di accedere al concordato preventivo se questo è più conveniente della liquidazione giudiziale in continuità aziendale, ma non vieta all’imprenditore di garantire col concordato preventivo una migliore soddisfazione, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale in continuità, di programmare un concordato giudiziale conseguente al ricorso per l’accesso  alla liquidazione giudiziale in proprio,  coi vantaggi di non dover esporre nel piano concordatario le possibili azioni di responsabilità e il meccanismo per giungere alla maggioranza dei voti favorevoli, che si avvale del silenzio assenso.

Se l’obiettivo della salvaguardia dei livelli occupazionali è espresso in modo esplicito nel concordato preventivo (articolo 84, comma 2, CCII), esso è perseguibile con la continuità diretta o indiretta anche nella liquidazione giudiziale: diretta mediante il ricorso all’esercizio provvisorio, indiretta mediante un contratto d’affitto d’azienda, stipulato  dall’impresa ancora in bonis e proseguito col subentro del curatore (in tal caso la somiglianza sostanziale col concordato con assunzione è di tutta evidenza), o realizzato direttamente dal curatore con un terzo, eventualmente indicato dal debitore nell’interesse precipuo di salvaguardare il valore di avviamento, i livelli occupazionali e di mantenere il valore dell’azienda quando questo sia dipendente dalla sua continuità.

Sebbene nel concordato preventivo la gestione dell’impresa debba farsi nell’interesse prioritario (e dunque non esclusivo) dei creditori, il principio si riverbera anche nella liquidazione giudiziale ancorché difetti un’analoga previsione per questa procedura, concepita essenzialmente per la liquidazione, ma che non esclude l’obiettivo del perseguimento della continuità aziendale. Obiettivo se vogliamo “secondario” sia nell’ottica del Codice, sia della Legge Fallimentare (considerando il contenuto dell’articolo 104-bis c.2 in tema di diritto di prelazione all’affittuario dell’azienda)   che si deduce implicitamente dalle norme sugli effetti dell’omologa del concordato giudiziale (l’automatico il ritorno in bonis della società determinato dalla chiusura del fallimento, e ora della liquidazione giudiziale, conseguente all’omologa del concordato) e con la mancata previsione dell’obbligo, per il curatore, di domandare la cancellazione della società dal Registro delle Imprese (articolo 245 CCII) e anche in seguito all’accertamento dell’esecuzione del concordato (articolo 249 CCII). La società che si trovi in questa condizione ben può ricostituire il capitale sociale e riprendere l’attività.[3]

Si condivide il pensiero del prof. Stefano Ambrosini il quale, a proposito delle finalità del concordato preventivo, afferma che, ove non si ravvisino contrasti tra l’interesse principale dei creditori e quello della salvaguardia dei livelli occupazionali, l’imprenditore è tenuto a salvaguardare i livelli occupazionali che connotano l’impresa al momento dell’accesso al concordato. Deve ritenersi che un siffatto onere sia immanente anche nel caso in cui l’imprenditore si risolva a domandare la liquidazione giudiziale, ponendo in essere tutti quegli strumenti che siano prevedibilmente idonei a conseguire quel risultato. Non può di certo escludersi che l’obiettivo sia più facilmente perseguibile accedendo “in proprio” al concordato giudiziale a ragione dei minori costi della procedura che sono assistiti dal diritto alla prededuzione.

La società fallita (o in liquidazione giudiziale) torna in bonis a prescindere dal momento in cui il Tribunale dichiara chiusa la procedura, e quindi anche ove il Tribunale non abbia ancora emesso il decreto di chiusura. Gli effetti che si produrranno in capo al debitore sono quelli tipici della chiusura della procedura (art. 236 CCII e art. 120 l. fall.), dunque viene meno lo spossessamento del debitore sul patrimonio. Parimenti, cessano le incapacità personali. La possibilità di ottenere l’esdebitazione produce anche l’effetto del venir meno delle cause di ineleggibilità e decadenza connesse all’apertura della liquidazione giudiziale (art. 278, I comma, CCII).

Tra il momento della pubblicazione del decreto del Tribunale, previsto dal sesto comma dell’articolo 245 del Codice (articolo 129 L. F.) e l’iscrizione al Registro Imprese del decreto che ha accertato la completa esecuzione del concordato (art. 240 CCII e 136 LF), la società torna nella pienezza delle sue prerogative, mentre l’esecuzione del programma concordatario è rimessa al soggetto (curatore, o liquidatore volontario della società) che era stato previsto come tale nella proposta concordataria omologata.

A questo punto la società che ha visto omologare la sua proposta di concordato dovrà solamente deliberare la ricostituzione del capitale sociale, in quanto la causa di scioglimento costituita dalla sentenza che ha dichiarato l’apertura della liquidazione è stata rimossa per effetto del decreto di chiusura emesso ai sensi dell’articolo 246 CCII e pubblicato a norma del successivo articolo 249.

Si può concludere che la finalità della continuità aziendale sia immanente in tutti gli strumenti previsti dal Codice, cui consegue una ristrutturazione della debitoria, ancorché nella liquidazione giudiziale costituisca un’eventualità e non il risultato principale.

La società che ha ottenuto l’omologazione del concordato giudiziale in proprio si trova, in definitiva, nella medesima posizione della società che ha proposto il concordato preventivo in continuità, alla quale però non è richiesto di cessare la partita IVA e domandare il rimborso dell’imposta a credito come unica modalità di realizzare quell’asset[4].

Sebbene la richiesta di rimborso non determini la cancellazione dall’attivo patrimoniale della posta, è innegabile che la possibilità di compensare verticalmente il credito nella prima liquidazione periodica o, in modo orizzontale, successivamente alla presentazione della dichiarazione munita di visto i conformità, costituisca una forma indiretta di finanziamento a costo zero per l’impresa, molto più vantaggioso dell’attesa del rimborso da parte dell’Agenzia delle Entrate, i cui tempi non sono preventivabili. La modalità di utilizzo del credito in compensazione favorirebbe peraltro la ripresa dell’attività economica e, dunque, è sicuramente più aderente allo spirito della Direttiva insolvency e del Codice della Crisi.

Alla sostanziale equivalenza finalistica del concordato giudiziale, programmato per approdare alla ripresa dell’attività col catalogo degli altri strumenti e procedure offerti dal Codice, non corrisponde però eguale disciplina fiscale, così come concepita dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate con particolare riguardo all’IVA. In tutte le procedure in cui è prevista la ripresa o la continuazione dell’attività d’impresa, fatta eccezione per il concordato giudiziale, non è richiesta la chiusura della partita IVA, né l’obbligo di richiedere il rimborso dell’IVA a credito in caso di ripresa dell’attività.

Occorre dunque ripensare alle prese di posizione dell’Agenzia delle Entrate, ma anche della giurisprudenza della Corte di Cassazione, circa la detraibilità dell’IVA all’epoca e in funzione del momento genetico dell’obbligazione tributaria che implica per il solo fallimento (e per la liquidazione giudiziale) la retrodatazione ad un momento precedente alla sentenza dichiarativa di fallimento (o dell’apertura della liquidazione giudiziale) della detraibilità dell’IVA assolta in favore dei creditori con i riparti endoconcorsuali.

Vale la pena di ripercorrere, seppur incidentalmente, la questione dell’interpretazione del comma 3 dell’articolo 6 del DPR 633/72.

La Direttiva 2006/112/CE, del Consiglio del 28 novembre 2006, dispone che il fatto genetico dell’imposta e la sua esigibilità   si concretizzano nel momento in cui la prestazione di servizi è effettuata (articolo 63), concedendo agli Stati membri di differire l’esigibilità fino al pagamento dell’imposta (articolo 66).

Questa è stata la scelta effettuata dall’Italia disponendo, con l’articolo 6 del DPR 633/1972, l’obbligo di emettere la fattura all’atto dell’incasso del corrispettivo, lasciando come mera facoltà l’emissione del documento fiscale prima del pagamento.[5] Si verifica dunque la scissione del momento in cui si genera il credito per l’imposta a favore del prestatore di servizi, che coincide con la conclusione della prestazione, dal momento, successivo e differito al pagamento, dell’esigibilità dell’imposta da parte dell’Erario, salvo che il prestatore non abbia esercitato la facoltà di emettere la fattura prima di riceverne il pagamento.

Su questo tema vi sono non coincidenti pronunzie della Corte di Cassazione che, con le sentenze numero 1468/2020 e numero 9064/2021, si è espressa in modo non uniforme sull’obbligo o sulla facoltà di emettere la fattura per prestazioni di servizi in difetto del pagamento.

La questione, a ben vedere, concerne il momento in cui il soggetto passivo (cioè il debitore assoggettato al fallimento o alla liquidazione giudiziale) che ha ricevuto la prestazione può legittimamente detrarre l’IVA, diritto che sorge non nel momento in cui la prestazione del fornitore di servizi (tipicamente e più frequentemente il professionista/creditore) si è conclusa,  ma nel momento della registrazione della fattura passiva da lui ricevuta nel registro degli acquisti o, al più, entro il termine della presentazione della dichiarazione IVA del secondo anno successivo a quello in cui è sorto il diritto alla detrazione.[6]

E ciò trova conferma nell’articolo 167 della Direttiva IVA che stabilisce il diritto alla  detrazione quando l’imposta diventa esigibile (intendendo con ciò il momento in cui lo Stato può esigere l’imposta dal soggetto che ha emesso o avrebbe dovuto emettere la fattura). La stessa Direttiva, all’articolo 178,  subordina tuttavia l’esercizio di tale diritto al possesso di una valida fattura.

E se il creditore/prestatore di servizi ha la facoltà, e non l’obbligo, di emettere la fattura all’atto del pagamento e nella misura in cui ha ricevuto il pagamento dal curatore (o dall’assuntore del concordato, o dal debitore che ha proposto il concordato fallimentare o giudiziale in proprio), aderendo all’interpretazione della Cassazione e dell’Agenzia delle Entrate si verifica un corto circuito per cui all’incasso dell’imposta da parte del creditore concorsuale si concretizza il diritto all’esigibilità da parte dello Stato membro, ma non il corrispondente diritto alla detrazione da parte del soggetto passivo che ha ricevuto la fattura, giacché il debitore tornato in bonis dovrebbe teoricamente far risalire il diritto alla detrazione al momento della conclusione delle prestazioni fatturate, che può essere antecedente anche di alcuni anni. Per fare ciò il debitore tornato in bonis dovrebbe rettificare il modello IVA 74 bis presentato dal curatore entro quattro mesi dall’apertura della procedura concorsuale (con seri dubbi sulla sua legittimazione a porre in essere una rettifica a un modello prescritto espressamente per il curatore) e la dichiarazione IVA doppio modulo presentata l’anno successivo a quello di apertura della procedura, dichiarazione finalizzata a segregare il debito (o il credito) IVA concernente le operazioni poste in essere nella frazione di anno solare precedente all’avvio della procedura concorsuale.  Ciò, tuttavia, è consentito solo se la prestazione può considerarsi conclusa in quella frazione di periodo d’imposta; se invece la prestazione è precedente al periodo d’imposta in cui è stata dichiarata l’apertura della procedura concorsuale, il debitore tornato in bonis dovrebbe rettificare la dichiarazione IVA dell’anno in cui la prestazione venne ultimata e tutte le dichiarazioni IVA successive per rigenerare correttamente il credito e/o il debito d’imposta da riportare a nuovo.[7]

L’effetto sostanziale di tale interpretazione che, va rimarcato, non tiene in alcuna considerazione l’altro presupposto che, secondo la Direttiva IVA, legittima il diritto alla detrazione dell’imposta da parte del debitore (e cioè il possesso di una valida fattura passiva) è quello di impedire l’utilizzo del credito IVA assolto dal debitore assoggettato al fallimento e/o alla liquidazione giudiziale, formatosi per effetto dei pagamenti eseguiti in esecuzione dei riparti (parziale o finale) ai creditori: diritto che si concretizza nel momento della ricezione e della registrazione della fattura emessa del creditore/prestatore di servizi che si sia visto totalmente o parzialmente soddisfatto dalla procedura concorsuale.

I suddetti pagamenti, nel concordato fallimentare e nel concordato giudiziale, possono essere effettuati dal soggetto indicato nella proposta omologata e che potrebbe essere il curatore, ma anche l’assuntore o il debitore stesso, sotto la sorveglianza del curatore.

Nella convenzione di moratoria,  nel concordato preventivo,  nel programma di ristrutturazione omologato e in genere in tutti gli accordi e le procedure di ristrutturazione  dei debiti previste dal Codice della Crisi, si può verificare un disallineamento temporale tra il momento in cui viene alla luce l’obbligazione genetica che dà luogo al diritto al pagamento del corrispettivo e della corrispondente IVA (conclusione della prestazione) e quello in cui la legge obbliga all’emissione della fattura per le prestazioni di servizi.

Tuttavia per tutte queste procedure non è prevista alcuna dichiarazione iniziale finalizzata all’individuazione del debito o del credito IVA alla data di apertura della procedura. Gli adempimenti fiscali permangono in capo al legale rappresentante del soggetto passivo in sostanziale e formale continuità e il diritto alla detrazione segue le regole ordinarie.

Il comma 2 dell’articolo 74 bis del DPR 633/72   dispone che "Per le operazioni effettuate successivamente all'apertura del fallimento o all'inizio della liquidazione coatta amministrativa gli adempimenti previsti dal presente decreto, anche se è stato disposto l'esercizio provvisorio, devono essere eseguiti dal curatore o dal commissario liquidatore."

Sul punto, la circolare n. 26/E del 22 marzo 2002 precisa che "la chiusura della procedura fallimentare integra una fattispecie di cessazione dell'attività, ai sensi dell'art. 35, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972, anche nel caso di ritorno in bonis del soggetto fallito. Il curatore sarà tenuto a presentare la dichiarazione di cessazione dell'attività entro trenta giorni dalla data di ultimazione delle operazioni relative alla liquidazione dell'impresa, e sarà tenuto all'adempimento di tutti gli altri obblighi connessi all'applicazione del tributo, compresa la presentazione della dichiarazione annuale, negli ordinari termini di legge."

Ne discende che tutti gli adempimenti IVA inerenti al periodo compreso fra l'apertura e la chiusura del fallimento sono a carico del curatore, inclusi gli obblighi di dichiarazione, anche se la società torna in bonis e delibera di riprendere l’attività.

Come abbiamo visto in precedenza, sia la Legge Fallimentare che il Codice della Crisi non fanno coincidere la chiusura del fallimento (e ora della liquidazione giudiziale) con l’omologa del concordato. Tra l’omologa e la chiusura della procedura ci sono di mezzo l’esecuzione dei pagamenti prevista dalla proposta concordataria, la ricezione da parte della curatela delle fatture emesse dai professionisti/creditori, la presentazione del rendiconto finale del curatore e l’udienza per la sua approvazione. Tutte attività, queste, che incidono sulla quantificazione del credito d’imposta, che restano in capo al curatore e che sono sottratte in modo irrazionale all’impresa tornata in bonis.

Non si comprende la ragione per cui, alla sostanziale coincidenza di finalità che possono essere perseguite col concordato fallimentare o giudiziale (ristrutturazione del debito in vista del ritorno in bonis e della ripresa dell’attività imprenditoriale) con gli altri strumenti regolatori delle crisi, non debba corrispondere un’identità di trattamento fiscale del credito IVA.

Forse è tempo di ripensare a queste asimmetrie.



[1] Prof. Stefania Pacchi “La scelta dello strumento di regolazione della crisi” in Ristrutturazioni Aziendali – 4 marzo 2024)

[2] (S. Pacchi – ibidem)

[3] Con le modalità descritte nel saggio “Il Concordato Giudiziale – Profili giuridici – Tributari e Contabili Dal Punto di vista del Curatore, del Debitore e dell’Assuntore” a cura dell’ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Roma, edito da Giuffrè Francis Lefebre.

[4] Circolare del Ministero delle Finanze 28 gennaio 1992 n. 3.

[5] L’intuibile scopo sottostante era quello di non gravare il lavoratore autonomo del pagamento di un’imposta a prescindere dall’incasso della fattura, giacché al lavoro autonomo si estende la tutela costituzionale sancita dall’articolo 35 (nello stesso solco si ricorderà la sentenza della Corte costituzionale n° 42/1980  che dichiarò  l’incostituzionalità delle norme che assoggettavano i redditi da lavoro autonomo all’ILOR).

[6] Circolare 1/E dell’Agenzia delle Entrate del 17/01/2018.

[7] A tanto si perviene applicando alla lettera la risposta all’interpello n° 230 dell’8 aprile 2021, ancorché relativo a operazioni attive venute a esistenza prima dell’apertura del fallimento ma fatturate nel corso della procedura.


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